Gli sfiorati
È da circa trent’anni che chi è stato adolescente negli anni ’80 – ’90 si sente studiare e definire nei modi più disparati da sociologi, opinionisti e artisti, per poi essere alla fine liquidato come indefinibile. Un’entità fuggente, contraddittoria e di difficile catalogazione, dove i pieni e i vuoti si succedono in modo imprevedibile, le ombre nascondono spiragli di luce e ogni luccichio distoglie solo temporaneamente dal grigio. Colpa anche di un contesto al retrogusto di plastica in cui la famiglia, intesa in senso tradizionale, è giunta al capolinea, manifestando soprattutto la sua disfunzionalità, la televisione ha avuto modo di riempire buchi emotivi lasciando emergere la sua malia lobotomizzante, destra e sinistra continuano a essere slogan solo per nostalgici e la contingenza riflette la precarietà dell’economia (ma è vero anche il contrario).
Al risveglio si ritrova una noce di cocco nel letto. Interamente vestito, sotto le coperte, Méte si chiede cosa sia successo, la sera prima, che abbia condotto a tali circostanze.
Una breve e veloce panoramica ci introduce i personaggi de “Gli sfiorati”, di Sandro Veronesi.
Una coppia di solerti domestici filippini; un orfano scaltro e determinato; un mastodontico, verace ed incorruttibile attore teatrale; un uomo che non conosce responsabilità né colpa. Ma, soprattutto, Belinda, bionda, bellissima e “schiumevole”.
Méte, il giovane protagonista, si muove nei salotti, nei locali e nelle strade della media borghesia romana. Inquieto, scostante e in conflitto con il padre vedovo e appena risposato, il ragazzo attraversa le giornate e, soprattutto, le notti, accompagnato da pochi amici e da un “pensiero dominante”.
Le ore notturne possono essere veramente lunghe quando sono scandite da una passione lacerante: non ci sono scappatoie né vie di fuga. Perché il nostro ragazzo, ventisettenne, studioso di grafologia, è in fuga.
Méte ha ricevuto un “regalo” dalla matrigna recentemente acquisita, come una singolare “dote” portata dalla donna al figlio dell’uomo che ha appena sposato.
Per tutta la durata del viaggio di nozze dei maturi “novelli sposi” , Belinda, la giovane figlia di Virna, andrà a stare a casa di Méte, il quale cercherà disperatamente ogni pretesto per evitare qualsiasi contatto dall’ oggetto amato.
“Basta davvero passare da un grembo all’altro per tenersi lontani dall’unico che reca tormento?”
Una passione incoffessata, una gioventù senza riferimenti, una città uterina, e last but not least, il perenne conflitto con il padre, sono gli ingredienti del romanzo scritto dal giovane autore toscano nel 1990 .
Sandro Veronesi, guadagnata la ribalta con “Venite venite B52”, riesce sempre a stupirci, intrigarci e soddisfarci. Una prosa ricca di sfumature e dettagli, che mette a nudo ogni approssimazione della realtà quotidiana, cogliendone aspetti spesso ignorati. Una scrittura “esatta”, racconti che mescolano, in giusta dose, paesaggi sociologici e complicate geometrie psicologiche.
Sempre presente, con una puntalità ossessiva, il conflitto con il padre…..ma questa è materia per gli psicanalisti.
“Gli sfiorati”, titolo anche questo molto significativo per provare a circoscrivere chi sembra lontano, distratto, ai margini di tutto eppure dentro ogni cosa, comunque in fuga, soprattutto da un se stesso alieno da qualunque classificazione. I personaggi che si muovono in una Roma protagonista trasversale sono infatti alle prese, prima di tutto, con un’inadeguatezza che li rende assenti, sempre concentrati su di sé, spesso in vetrina, quindi esposti alle intemperie del cuore, ma con la testa in un altrove in cui trovare rifugio o da cui evadere per sempre. È l’evanescenza il loro tratto fondamentale, a cui consegue l’incapacità di stabilire rapporti affettivi solidi, sia familiari che di amicizia o di amore. I legami si cercano ma fanno paura. Si scappa stando fermi. L’indifferenza pare un’arma ma si rivela una trappola.
Leggere “Gli Sfiorati” ci fa scoprire come sia sempre troppo superficiale il nostro sguardo sulle cose.
Lettere a un giovane poeta
La tentazione (forte, peraltro) è quella di dire: leggetelo, punto e basta. Ma temo che il mio webmaster non sarebbe d’accordo. Quindi, con un certo imbarazzo, spenderò due parole su di un classico intramontabile.
Scrivere è una necessità, intima, insopprimibile.
Si possono spiegare ( e apprendere) grammatica e sintassi, ma non è possibile trasmettere un bisogno, una passione.
Il giovane Franz Xavier Kappus, alle prime armi con la penna, chiede consigli al grande Rainer Maria Rilke e gli sottopone i suoi primi lavori.
Il poeta, con un’umiltà sconosciuta ai più, comincia un carteggio con il ragazzo e la poesia diventa un punto di partenza per alcune semplici quanto essenziali considerazioni sull’esistenza.
Rilke, con un linguaggio semplice e diretto, vola alto: -….Sforzatevi di amare i vostri stessi problemi….Non cercate per il momento delle risposte, che non possono esservi date, perché non sapreste metterle in pratica, “viverle”. E, precisamente, si tratta di vivere tutto. –
Uno scrittore deve comprendere le proprie necessità di scrittura e, in base a queste, affinare i propri mezzi espressivi, con molta pazienza e prudenza, senza fretta.
Deve ascoltare il proprio mondo, lasciarlo parlare a lungo prima di arrischiarsi a raccontarlo.
L’Auture non si risparmia, parla al giovane con sincerità e senza affettazione. Questo è ciò che pensa della critica e dell’estetica: “Sono prodotti di spiriti faziosi, pietrificati, privi di senso nella loro rigidezza senza vita, oppure abili giochi di parole.”
Scrivere è davvero difficile: si ha davanti il mondo, il linguaggio e sé stessi. Ognuno di questi elementi è regolato da norme proprie e si tratta di trovare il modo di raccontare una storia che ha, a sua volta, regole proprie. Si tratta di far andare a nozze il mondo, sé stessi e il linguaggio per trovare una sola regola che si esprime nel racconto.

Le etichette delle camicie
“Scrivo stupidaggini perché non voglio lasciare un segno, voglio essere dimenticato.”
“Allora perché NON scrivi e basta?”
“Beh, non così TANTO dimenticato!”
Il nome di Tiziano Sclavi viene sempre associato a Dylan Dog e giustamente. L’ingresso dell’”indagatore dell’ incubo” nel mondo dei fumetti è stato travolgente; un macigno in uno stagno. Quanto di più innovativo ci sia stato negli ultimi vent’anni, nei contenuti e nei codici.
Ma l’Autore ha scritto anche alcuni romanzi, sempre sul genere noir-horror. Tutti tranne questo.
Attorno alla redazione di una casa editrice di fumetti si intrecciano le storie, i piccoli episodi quotidiani dei protagonisti.
Leit motiv del romanzo il dialogo che si svolge in una trattoria tra uno di loro e la ragazza appena conosciuta. Lui è brillante e nevrotico, un po’ ansioso, lei, carina e accogliente. L’atmosfera è comunque idilliaca.
Parallelamente, vediamo spezzoni di vita, sentimentale e non, degli altri “fumettari” Ognuno con le proprie idiosincrasie, le depressioni e le gioie tipiche degli “over 30”. In sottofondo: la solitudine, o, meglio, la paura della solitudine che li accompagna.
Ciò che li accomuna è uno stato diffuso di insoddisfazione e, soprattutto, insofferenza verso la stupidità, la banalità, la volgarità che li (ci) circonda. E di volgarità e stupidità, in questo periodo
ce n’è ovunque a iosa.
Tommaso è indietro di alcune “tavole” che non ha alcuna voglia di fare; ogni tanto si affaccia in redazione giusto per assicurarsi di avere ancora un lavoro e lamentarsi coi colleghi, che a loro volta colgono l’occasione per lamentarsi con lui. Non ha una ragazza e ne soffre.
Cohan riceve una telefonata da un’ammiratrice che sta scrivendo una tesi su di lui. Finge di schernirsi ma alla fine la invita a casa per “un’intervista”. I due finiranno col mettersi insieme.
Nella trattoria, tra spaghetti aglio e olio e pappardelle al sugo di lepre, la conversazione scivola via, ironica e confidenziale. Lui accenna alle proprie crisi depressive:
“……Questi sbalzi di umore. Andavo su e giù ad una velocità incredibile. Ero una montagna russa.”
“ E adesso?….”
“ Bah, forse un po’ meno. Una montagna polacca.”
……E così via…..
“ Tiziano Sclavi, questa volta, ha spento gli incubi per accendere i sogni.”
IDORU

Un ‘impossibile storia d’amore tra un cantante rock e un avatar, un’entità della rete. …
“Gli ologrammi sono definiti come figure (o pattern) d’onda interferenti ottenute tramite l’uso di un laser, aventi la specificità di creare un effetto fotografico tridimensionale” .Così ,Wikipedia.
Da parte mia vi posso solo dire che mi hanno sempre fatto impazzire. Vidi il primo nel 1987 e da allora ne sono (quasi) ossessionato. La luce. La luce è fonte di vita; siamo da sempre attratti dalla luce; ma in questo caso è…….magia. Davvero, passerei ore a guardare queste figure fatte solo di luce.
Figure tridimensionali fatte di luce.
Aidoru è il nome di una particolare categoria di artisti virtuali, la cui vita artificiale non si svolge solo negli ambienti simulati ma anche in luoghi reali, grazie ad un sofisticato dispositivo olografico capace d’ingannare gli osservatori più attenti.
Nella fattispecie, l’Idoru che dà il nome al romanzo di Gibson è la bellissima Rei Toei, la quale, pur essendo solo un agglomerato di dati, ha una volontà propria che prescinde dalla programmazione di base.
Nella “realtà” ( e qui le virgolette sono d’obbligo) Kyoko Date è il primo idolo virtuale: una cantante dai lineamenti orientali che trae ispirazione dal romanzo di W. Gibson, Idoru. Come ha scritto proprio William Gibson il padre della fantascienza cyberpunk, a proposito dell’antenato dell’iPod, il walkman: a pochi mesi dalla sua comparsa, «nessuno era in grado di ricordare cosa volesse dire vivere in un mondo in cui non fosse possibile muoversi negli spazi urbani avvolti nella propria bolla acustica» (Leonard 2007)
“Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni, una delle più scritte ma anche più bistrattate: confinata per secoli nei gerghi della filosofia e della scienza, sta ora entrando nel linguaggio comune. Il suo uso prevalente è ancora sinonimo di “irreale” e “finto”, ma la sua diffusione segna comunque una riscossa della “potenza” sull’ “atto” : le tecnologie digitali sono “tecnologie del possibile” sia nel senso che rendono possibili eventi che fino a ieri apparivano impossibili, sia nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere dalla realtà tradizionale quell’aura di unicità e immodificabilità.
L’ estetica digitalesi basa sul fatto che con la cultura digitale, la testualità digitale, le immagini digitali, si verifica uno spostamento dalla scrittura- basata su segni e superfici fisiche- ai codici: in sostanza c’è un movimento dal materiale all’immateriale. Poiché l’estetica digitale dipende da una questione di codici accade che i confini tra i diversi generi e forme sfumino. Nascono nuove forme di espressione caratterizzate dalla condivisione dei contenuti tra autore e lettori. Una trovata davvero rivoluzionaria quella che i giapponesi realizzeranno qualora il loro paese venga scelto come sede ospitante per i Mondiali di calcio del 2022: proiettare le partite del mondiale in tutto il mondo con gli ologrammi. Fantascienza? Può darsi, ma non per Aoi Konishi, manager del comitato per la candidatura: “Stiamo parlando del Giappone ed il Giappone può. Il progetto è ovviamente top-secret e non possiamo rivelare niente ma al momento si riesce a proiettare un’immagine statica. La Fifa ha già visto qualcosa durante l’ispezione di luglio ed abbiamo dodici anni per proiettare anche le immagini in movimento”. Il perché di tutto questo lo spiega Patrick Nally, consulente del comitato giapponese nonché ex uomo- Fifa: “Il Giappone vuole diventare paese leader per la tecnologia e per questo il governo è disposto ad un investimento economico altissimo. Le potenzialità ci sono visto che al progetto stanno