
Il nuovo Dioniso
“Io sono un viandante e uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, in essa sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne; alla fine non si sperimenta che se stessi”; in apertura del terzo libro dello Zarathustra l’alter ego nietzscheano si rimette in cammino ricordando il “suo lungo peregrinare” che si lasciava alle spalle. Credo fosse ben presente all’argomentare nietzscheano l’esortazione di Ralph Waldo Emerson, uno dei più importanti riferimenti del pensatore tedesco: “Non andare dove il sentiero ti può portare; vai invece dove il sentiero non c’è ancora e lascia dietro di te una traccia”. Credo sia importante precisare che l’incedere del viandante non è un viaggio, il viaggio presuppone un luogo di partenza, una ragione per abbandonarlo, una destinazione da raggiungere e, molto spesso, una casa alla quale tornare; il viandante è un peregrino, in lui la meta, il luogo del viaggio e di arrivo coincidono, per dirla apparentemente in maniera tanto più criptica quanto inequivocabile, ancora una volta torniamo a Zarathustra: “alla fine non si sperimenta che se stessi”. Lo sperimentarsi nietzscheano è l’errare in noi stessi alla scoperta di luoghi già nostri eppure inesplorati, un procedere che, spesso, non è in pianura, ma faticosa e affascinante scalata poiché ogni scalata nell’io avvicina al cielo mentre mostra l’abisso. È in questo camminare su un filo proteso tra le vette dell’io più remoto e l’abisso che lo costituisce che, funamboli che ridono, realizziamo noi stessi lasciando tracce in sentieri che non esistevano prima del nostro passaggio pur essendo in attesa del nostro piede.
Un antico proverbio africano recita così:” Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato” e, aggiungiamo, il viandante senza meta, poiché la crea a ogni passo, si inoltra dove ancora non è stato, con disponibilità a rimanerne sorpreso, a lasciarsi visitare dall’inatteso. Quando finalmente si è pronti per un tale cammino si riconoscono come proprie le parole dello Zarathustra: “Chi però è della mia specie non sfugge a tale ora: all’ora che gli dice: “Solo adesso vai per la tua strada di grandezza! Vetta e abisso sono compresi in uno”. Il rinvio a “la più oscura filosofia dell’oscuro Eraclito” ci presenta il nuovo Dioniso, un dio che balla la danza più impervia, quella i cui passi leggeri si muovono nello spazio che creano, dimentichi delle regole dell’altrove, soggetti alla sola dottrina dell’amore e del coraggio. Non più e non solo il Dioniso in corteo sul suo carro trionfale accompagnato da una corte di baccanti e gaudenti, felici della vita, ma un nuovo Dioniso che “quando giunse in cima al monte [vide] spalancarsi davanti a lui l’altro mare”, quello che suggerì a Carl Gustav Jung, attento lettore di Nietzsche, “Devo accostarmi all’anima mia come uno stanco viandante, che nulla ha cercato al di fuori di lei”. Curioso di Sé e, allo stesso tempo, artista e creatore di ciò che incontra, il nuovo Dioniso si sofferma in una nuova Lichtung, dove si disvela ciò che era e finalmente non è più nascosto, una radura nella quale accogliere il se stesso viandante che sopraggiunge da diversi sentieri, con differenti volti, portatore di altre storie, capace di molteplici sguardi. L’incontro e la ricomposizione delle infinite sfaccettature del Sé saranno il premio per chi, “amoroso e folle [come] Zarathustra” avrà avuto l’ardire di affrontare un simile “mostro”, compito che richiede il coraggio di “accarezzare il mostro”, “Un soffio d’alito caldo, un po’ di vello morbido sulla zampa e tu eri già pronto ad amarlo e ad allettarlo”
Il nuovo Dioniso è, quindi, il viandante per antonomasia anche se, mentre nell’accezione classica tale figura è l’inatteso, lo straniero, il mistero, in questa diversa prospettiva è il dio creatore di se stesso nell’atto dell’incontro nella radura del Sé. Il viandante diviene coscienza, consapevolezza, interrogazione e responsabilità, ma non è più orfano di una meta, nel suo incedere si scopre essere, per usare un’intensa ed efficace immagine del musicista e poeta Juan Baladàn Gadea, “[…] come l’acqua che scorre, siamo viandanti in cerca di un mare“, a ogni passo il nuovo Dioniso scopre e impara ad amare ciò che diviene, si rende conto di come stia cambiando il suo sguardo e di come, tale mutazione, trasformi il paesaggio che attraversa e che lo determina, così che il suo “viaggio di scoperta”, per dirla con le parole di Proust, “non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Lo sguardo del nuovo Dioniso impara a scrutare nel buio e a riempirlo di chiarore, l’abisso si scopre vetta e lo scendere in se stesso lo innalza “fin sopra le proprie stelle”, impara a interrogarsi e ad accettare le risposte inattese, ma questo lavoro richiede tempo e amore, due aspetti che, così mi sembra, divengono sempre più rari nell’uomo contemporaneo. L’urgenza di privilegiare il cammino esogeno, quello quotidiano e convenzionale, preclude i crepuscolari silenzi dell’incedere del viandante, sembra non sia più imprescindibile conoscersi quanto piuttosto esibire l’aspetto più utile del Sé che, troppo spesso superficialmente, abbiamo lasciato edificare dal mondo relazionale tra gli avatar di ognuno. Ci si ostina a porre la domanda sbagliata tanto che anche le più valide risposte divengono dannose per l’unico serio impegno che ognuno dovrebbe assumersi: imparare ad essere felice. “He cometido el peor de los pecados que un hombre puede cometer. No he sido feliz” (Ho commesso il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere. Non sono stato felice) scriveva Borges.
Una delle peculiarità di un simile viandante, così aperto all’incontro, così capace all’amore, è quella di essere necessariamente in compagnia solo del sé stesso che diviene e, per tornare al testo nietzscheano, “L’amore è il pericolo del solitario, l’amore per qualsiasi cosa, purché sia viva!” Credo che sia proprio il rendersi capace all’amore, prima verso sé stessi e poi verso il mondo, il mare al quale regalare le nostre acque. Questo può essere pericoloso, ne siamo consapevoli, ma quale regalo più grande è possibile offrire a noi stessi e a chi incrocerà il nostro cammino? Dove il fiume si insala per conoscersi altro, continuamente mutevole, “mare che dorme” di fronte allo sguardo nuovo di Zarathustra che ne avverte il respiro caldo, che ascolta il suo gemere per i cattivi ricordi o per i cattivi presentimenti, lì, tra la foce e l’infinito, nel non luogo abissale si incontra il viandante con il proprio adesso, avverte il pericolo di un’intimità sconvolgente, eppure rimane fiducioso, si sa capace all’amore, saprà “consolare il mare con il [proprio] canto; il dio che balla potrà scoprirsi uomo e dio che inventa nuovi alfabeti per celebrare l’ennesima resurrezione. Penso sia efficace a questo punto del nostro percorso l’impiego di alcune righe che hanno segnato un incontro d’amore tra un uomo e una donna e che, in questo caso, perfettamente rappresentano il “viaggio all’amore” tra il nuovo Dioniso e sé stesso: “Poco più oltre incontrerai una casa dove, in piedi sulla soglia, c’è una donna con il sole tra i capelli e il sorriso nello sguardo. Quella che è rimasta in attesa fino a ora. La donna che ti ama. L’unica che può dirti: “Come mai ci hai messo così tanto?”