
Le odio perché sono stati tra i primi a dimostrare che l’Italia poteva competere con l’Inghilterra sul terreno più difficile: il rock progressivo.
Le odio perché con *Collage* hanno creato un manifesto che univa Bach, rock e poesia in un solo respiro.
Le odio perché con *Uomo di pezza* hanno scritto canzoni che ancora oggi ti strappano il cuore a metà, come *Gioco di bimba*.
Le odio perché *Felona e Sorona* non è solo un album: è un viaggio cosmico, una favola filosofica che racconta l’eterno equilibrio tra luce e oscurità.
Lo odio perché Aldo Tagliapietra con la sua voce e il basso sapeva portarti in un altro mondo.
Le odio perché Tony Pagliuca con le tastiere dipingeva paesaggi sonori che nessuno aveva mai immaginato.
Le odio perché Michi Dei Rossi alla batteria trasformava ogni brano in un universo ritmico pulsante.
Le odio perché hanno saputo essere sperimentali e allo stesso tempo accessibili, profondi ma popolari.
Lo odio perché anche in inglese (grazie alla collaborazione con Peter Hammill dei Van der Graaf Generator) suonavano autentici, mai “tradotti”.
Le odio perché hanno portato la melodia italiana dentro la complessità del prog, senza mai perderla.
Le odio perché quando li ascolti ti rendi conto che non erano “la risposta italiana” a niente: erano Le Orme, e basta.
Le odio perché ogni volta che parte *Sguardo verso il cielo* capisci che certe emozioni non invecchiano mai.
Le odio perché hanno saputo essere leggeri e visionari, malinconici e potenti, moderni e senza tempo.
E io odio doverlo ammettere, ma Le Orme non erano solo un gruppo prog.
Erano — e restano — una costellazione di emozioni.
Andate a quel paese, Le Orme di sta fava.
E grazie.