
“Le armi salvano vite”, scriveva Charlie Kirk.
E ancora: “Vale la pena accettare qualche morto in più, se questo significa poter esercitare il diritto di avere un’arma per difendere gli altri diritti concessi da Dio”
Erano frasi ripetute spesso, con orgoglio.
Uno dei punti di riferimento della destra americana, fondatore di Turning Point USA, idolo dei giovani ultraconservatori, sostenitore di Trump e promotore convinto del culto delle armi.
Oggi, Charlie Kirk non c’è più.
È stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre parlava con gli studenti in un campus universitario dello Utah, durante un evento pubblico.
Un colpo solo, sparato da lontano. Letale.
Un altro nome da aggiungere a una lunga lista di vittime, in un Paese in cui le armi sono ovunque, e la violenza è ormai parte del paesaggio.
Charlie Kirk non si è limitato a difendere il diritto alle armi. Negli anni ha costruito una narrazione tossica, spietata, fascista, disumana.
Ha detto che se sua figlia di 10 anni fosse stuprata, dovrebbe partorire il bambino.
Che le donne nere “non hanno le capacità cerebrali per essere prese sul serio”.
Che i neri stavano meglio quando erano schiavi, prima degli anni ’40, perché “commettevano meno crimini”.
Che la legge perfetta di Dio dice che le persone gay “andrebbero lapidate a morte”.
Che i bambini dovrebbero assistere alle esecuzioni pubbliche.
Che i palestinesi non stanno soffrendo la fame.
Non sono scivoloni.
Sono dogmi ideologici ripetuti per anni nei talk show, nei podcast, nei comizi, nei campus, nelle dirette online seguite da milioni di persone.
Parole che non “scaldano il dibattito”: avvelenano il terreno, creano bersagli, disumanizzano.
E quando diffondi odio, e vai in giro per il Paese promuovendolo come se fosse un’opinione legittima, c’è il rischio che qualcuno raccolga quel veleno.
Il punto, oggi, è proprio questo: le idee hanno conseguenze.
Il clima che contribuisci a creare può travolgerti.
E quando una società cede all’odio, alla semplificazione, alla violenza come strumento di affermazione, prima o poi colpisce tutti. Anche chi pensava di essere al sicuro.
Charlie Kirk non era un semplice opinionista.
Era un costruttore di ideologia.
Ha passato i suoi anni a difendere – e a glorificare – un modello di società armata, polarizzata, spinta allo scontro, in cui il conflitto è presentato come virtù e le armi come garanzia di libertà.
E in quel modello, il diritto di un diciottenne ad acquistare un fucile d’assalto vale più della sicurezza di una scuola.
La possibilità di difendersi viene usata per giustificare l’espansione incontrollata del mercato delle armi, anche quando è evidente che non difende nessuno, e anzi, produce morte, paura, instabilità.
Negli Stati Uniti, oggi, ci sono più armi che esseri umani.
Le stime più prudenti parlano di 392 milioni di armi da fuoco in circolazione tra i civili.
È un numero che fa tremare, se si considera che la popolazione americana si aggira intorno ai 341 milioni di abitanti.
Solo nel 2024, oltre 45.000 persone sono morte per colpi di arma da fuoco: suicidi, omicidi, incidenti domestici, sparatorie di massa.
Una strage quotidiana, silenziosa, che colpisce tutti, in ogni angolo del Paese: nelle scuole, nei centri commerciali, nei supermercati, nei campus, nei teatri.
Un numero spaventoso, che racconta di un’epidemia sociale che nessuno vuole davvero curare. Perché chi prova a parlare di regolamentazione viene accusato di voler togliere “la libertà”. Perché il diritto alle armi è diventato un totem, un dogma intoccabile, più sacro della vita stessa.
Charlie Kirk è stato ucciso in un Paese che ha reso le armi da fuoco più accessibili di un farmaco contro la depressione.
In un Paese che consente sostanzialmente a chiunque di imbracciare un fucile e puntarlo contro un palco, un gruppo di studenti, o un politico che parla.
E questo non è “il prezzo della libertà”.
È il fallimento di una società che ha scelto la paura come compagna quotidiana.
Possiamo e dobbiamo dirlo chiaramente: le armi non salvano vite. Le armi, nelle mani sbagliate, distruggono vite. E chi per anni ha contribuito a normalizzare tutto questo, oggi deve fermarsi e riflettere.
Non per celebrare una morte, ma per capire quanta parte di responsabilità abbia avuto nel mondo che quella morte l’ha resa possibile.