
Probabilmente non fregherà a nessuno del Nepal, tanto per molti è quel posto sulle cartine geografiche che serve solo a piazzare l’Everest come sfondo delle pubblicità di scarponi da trekking.
Eppure quello che sta succedendo laggiù meriterebbe almeno uno sguardo, perché è la dimostrazione di quanto sia fragile un potere che vive sopra un cumulo di bugie, privilegi e ipocrisia.
La narrazione ufficiale dice: “tutto è esploso per il blocco dei social media”.
Come se una generazione intera fosse scesa in piazza solo per postare di nuovo i gattini su Instagram.
La verità è che quello è stato solo il cerino: la benzina era già ovunque, sparsa da anni di corruzione, nepotismo e un divario sociale da far impallidire persino certi stati africani governati da dittatori in divisa.
Da una parte il popolo: stipendi che non bastano per comprare un paio di scarpe nuove, blackout che arrivano puntuali come il tè del pomeriggio, strade che sembrano campi minati e giovani costretti a emigrare in Qatar o Malesia per fare i camerieri, muratori, autisti.
Dall’altra i “rappresentanti del popolo”: SUV da centomila dollari, whisky scozzese in salotti che sembrano copie mal riuscite del Taj Mahal, figli che studiano a Londra o Boston con rette universitarie che un nepalese medio non guadagnerebbe nemmeno in tre vite.
Il governo ha pensato bene di oscurare 26 piattaforme digitali, convinto che la Generazione Z si sarebbe messa tranquilla a giocare a carte o a scrivere poesie al lume di candela.
Invece i ragazzi hanno rovesciato il tavolo: migliaia di loro sono scesi in piazza e hanno trasformato Kathmandu in un teatro di guerriglia urbana.
Proiettili veri, morti per strada, palazzi governativi incendiati, ministri barricati in casa come vecchie comari terrorizzate, case di ex premier bruciate con dentro mogli e parenti che fino a ieri guardavano dall’alto in basso “la plebe”.
Risultato: almeno venti cadaveri, centinaia di feriti e il Primo Ministro Oli che si dimette come un bidello colto a rubare i gessetti.
Non per dignità, ma perché non aveva più nemmeno una porta intatta dietro cui nascondersi.
La protesta non è più “contro il blocco dei social”: è contro un’intera classe politica che per decenni ha predicato sacrifici e disciplina, mentre si arricchiva come scarafaggi in una dispensa piena di zucchero.
È contro i palazzinari travestiti da statisti, contro i predicatori morali che intascano tangenti, contro gli stessi dinosauri che a ogni elezione cambiano partito come si cambia camicia, e che alla fine hanno in comune solo una cosa: il conto in banca.
La Generazione Z nepalese ha fatto capire che non basta riaccendere TikTok per calmare le acque: vogliono vedere i loro leader smettere di pavoneggiarsi in abiti firmati mentre la popolazione si arrangia con vestiti logori e cucine senza gas.
Vogliono che chi beve whisky importato impari a bere l’acqua torbida dei villaggi, e che chi predicava la “sopportazione” scopra cosa significa mangiare riso bollito per una settimana intera.
E mentre i turisti occidentali, con le loro giacche North Face, continuano a sognare il trekking sull’Everest, i giovani nepalesi stanno facendo un altro tipo di scalata: quella contro un sistema che li ha traditi, impoveriti e presi in giro.
Un sistema dove la democrazia è stata usata solo come copertura per arricchire quattro famiglie e mantenere un circo di politici imbalsamati che parlano di “patria” e “sacrificio” con la bocca ancora sporca di caviale.
La verità è che il Nepal oggi brucia non per i social oscurati, ma perché un’intera generazione ha deciso che è finita la pacchia.
E quando un popolo affamato guarda le tue ville che svettano sopra le baracche, non sta pensando a un hashtag: sta pensando a quanta benzina serve per trasformarle in cenere.
Puoi mandare l’esercito, puoi chiudere l’aeroporto, puoi perfino provare a spegnere internet, ma non puoi spegnere la fame e l’odio.
E allora, più che protesta, quella di Kathmandu somiglia a un trasloco forzato: i politici fanno le valigie, il popolo prepara i fiammiferi.
Perché in Nepal, ormai, la rivoluzione non si posta: si incendia.