
Quando mia madre, dopo una delusione amorosa, cadde in depressione lasciai la scuola di teatro, la famosa Performing Arts di New York, a diciassette anni cominciai a fare mille lavoretti: pony express, le commissioni per l’American Jewish Committe, le pulizie all’Herbert Berghof Studio nelle aule dove si insegnava danza, traslocatore, cameriere, ma venni licenziato perché sorpreso a mangiare gli avanzi dai tavoli, per dire la fame che avevo. Intanto facevo provini teatrali, arrivavo col testo ma poi finivo a recitare Shakespeare (Amleto o Macbeth), mi lanciavano uno sguardo da cui capivo che avevo già perso ogni chance. Martin Sheen (Marty), compagno di corso venne a stare da me, così potemmo dividere l’affitto. Insieme lavoravamo al Living Theater nel Greenwich Village, dove pulivamo i gabinetti e stendevamo i tappeti per le rappresentazioni.
Dopo aver visto uno degli spettacoli di Judith Malina e Julian Beck, come minimo tornavi a casa, ti chiudevi in camera tua e te ne stavi per due giorni a piangere e guardare il soffitto. L’impatto era quello.
Al mio primo provino cinematografico con Elia Kazan, arrivai in ritardo e presero un altro. La prima cosa a cui pensai, in quel momento fu mia madre, l’avrei tirata fuori dalla sua depressione e dal suo stato di bisogno e le avrei dato tutto ciò che desiderava. Non perché sarei diventato ricco, o lei avrebbe fatto chissà cosa con quei soldi. Ma perché avrebbe ritrovato il gusto per la vita. Invece la mamma morì per colpa dei barbiturici, come Tennesse Williams, come tanti altri. Era stata lei a portarmi piccolissimo, a due e tre anni, al cinema e poi a Broadway come quella volta che videro ‘La gatta sul tetto che scotta’.
Per un po’ lavorai come maschera al Rivoli Theatre in Times Square e poi mi misi a consegnare le copie di Show Business, un settimanale del mondo dello spettacolo che pubblicava cosa andava in scena e dove si tenevano le audizioni. Quell’anno morì anche mio nonno a cui ero legatissimo, e mentre consegnavo la rivista svenni per strada, immagino che fosse perché ero denutrito, ma anche per il dolore di questa nuova perdita. Entrambi i nonni erano di origine italiana: Alfred Pacino, da cui aveva preso il nome, era arrivato dall’Italia a inizio Novecento, l’altro, il papà della mamma, veniva da Corleone, cosa che scoprii solo dopo essere stato scritturato per Il padrino, ed era immigrato negli Stati Uniti a quattro anni, faceva l’imbianchino, aveva lavorato tutta la vita. Era un’anima bella e gli volevo un gran bene. Se sono ancora qui è grazie a lui, e non lo dimenticherò mai.
Continuai a recitare nel Village, facevo spettacoli per bambini al Theater East, recitavo in un piccolo locale di Soho, l’Actors Gallery, e poi arrivò finalmente la svolta: il copione de ‘L’indiano vuole il Bronx’, atto unico di Israel Horowitz. Con alcune pause venni portato in giro per un anno finché arrivai a Broadway, con me in scena c’era John Cazale. Eppure, la produttrice di New York mi impose un provino nonostante avessi interpretato il personaggio in tutti i teatri di provincia, alla fine la spuntai. Era il 1968, quell’estate portarono lo spettacolo per due settimane al festival di Spoleto. ‘L’indiano vuole il Bronx’ fu il punto d’arrivo di un percorso che era iniziato quando mia madre aveva cominciato a portarmi al cinema da piccolo. E dopo niente fu più lo stesso.
Al Pacino