
In California c’è un castello che sembra uscito da una fiaba o da un’alpe remota. Al suo interno, uomini che la guerra ha reso pazzi, o comunque uomini che si fingono tali per evitarla, la guerra, sottoposti alle cure di uno psichiatra. Uno di essi è un militare che ha rifiutato di imbarcarsi in un volo verso la Luna mentre un altro progetta una messa in scena dell’Amleto con un cast di cani. L’arrivo di uno psichiatra ex marine in sostituzione del precedente porterà a un confronto con i pazienti.
Questo è ben strano, di quello strano che ottieni se mescoli Heller e il suo seminale Comma 22 con Qualcuno volò sul nido del cuculo di Kesey. Impensabile, per me, che Blatty non avesse presente le due opere nella concezione del racconto “Twinkle twinkle Killer Kane” e la sua successiva rielaborazione nel romanzo “La non configurazione”.
Blatty dirige un’opera che sembra perdersi in un infinito assurdo alla Ionesco, ma a ben vedere e ascoltare le farneticazioni di Cutshaw e dei suoi compagni abbiamo il sentore di qualcosa di ben diverso.
La pellicola, con il suo diretto riferimento al Principe di Danimarca, quell’Amleto che incarna al tempo stesso la follia e l’indecisione, si inquadra nel tema di una dettagliata indagine sull’uomo e sulla follia, follia che in questo caso è indotta dalla guerra, ma Blatty non si ferma all’Amleto e, con minore evidenza ma sempre seguendo la traccia del bardo, assegna ai vari folli l’archetipo del giullare del Re Lear (la tragedia che in assoluto più amo di Shakespeare), ovverosia colui che solo in un mondo impazzito può permettersi, nella sua follia, di dire il vero.
L’opera è considerata il secondo capitolo della “trilogia della fede” di Blatty che comprende L’esorcista e L’esorcista III ma non aspettatevi nulla di simile agli altri due capitoli.
La non configurazione è più che altro un percorso che va affrontato nella riflessione, mentre si viene continuamente sviati dall’esuberanza degli attori, da una scenografia che ci riporta a un genere totalmente diverso, in cui pare vivere anche il luogo dell’assalto finale di Quella sporca dozzina (ed anche l’ sono abbastanza certo che Blatty citi apertamente), e in questo senso il legame con il tema della fede e della possessione lentamente inizia a emergere.
Nella seconda metà l’opera assume temi più cupi, l’esuberanza iniziale dei pazienti si spegne e diviene lo sfondo di un confronto fra Kane e Cutshaw, confronto che ci condurrà fino alla fine del film.
La regia (e la sceneggiatura) di Blatty rappresentano il principale valore aggiunto di quest’opera eccezionalmente particolare che vive sempre in bilico fra humour e dramma psicologico, con una sequenza che sebbene a mio avviso presenti alcuni elementi di ingenuità riesce a trasmetterci il messaggio conclusivo dell’opera.
Un film che vive di teatro e introspezione, in cui è facile smarrire la bussola ma che è capace di comunicarci il sentimento di un tempo trascorso e rientra, a mio avviso, in tutta quella cinematografia post Vietnam in cui si cercava di trovare una narrazione che mettesse al centro l’uomo e non la bandiera, al di là dei patriottismi tossici che cannibalizzarono (e cannibalizzano tuttora) intere nazioni.
Da recuperare.