
Quando Robert Redford accettò di partecipare a Spy Game (2001), segnò un ritorno ai thriller politici tesi che avevano definito la sua carriera negli anni ’70. Ma questa volta c’era una differenza: non era più il giovane idealista affamato di gloria. Interpretava Nathan Muir, il veterano della CIA che trasmette saggezza (e cinismo) a Tom Bishop, il personaggio di Brad Pitt. Per Redford, non era solo un ruolo: era un riflesso del suo stesso posto a Hollywood—mentore di una nuova generazione di stelle.
La dinamica tra Redford e Pitt divenne uno dei tesori nascosti del film. Pitt ammise in seguito di essere stato nervoso a lavorare con Redford, essendo cresciuto guardando i suoi classici come Butch Cassidy e The Sting. Redford lo mise a suo agio trattandolo come un pari, pur assumendo occasionalmente il ruolo di insegnante, soprattutto durante le lunghe scene dialogate. Il loro rapporto fuori dal set rifletteva la storia del film, fatta di mentorship e fiducia.
Un episodio affascinante dietro le quinte avvenne durante le riprese in Marocco. La troupe incontrò problemi logistici e gli animi si accesero. Redford, famoso per il suo comportamento calmo, prese in mano la situazione come avrebbe fatto il suo personaggio, convincendo funzionari locali e mantenendo alta la motivazione della troupe nonostante il caos. Il regista Tony Scott disse in seguito che Redford “quel giorno salvò il film interpretando Nathan Muir nella vita reale.”
Nonostante l’uscita in un periodo segnato dagli attacchi dell’11 settembre, Spy Game trovò il suo pubblico. Per Redford, fu un promemoria del motivo per cui si era avvicinato ai thriller politici: non per l’azione, ma per le domande morali. Una volta descrisse il film come meno una storia di spionaggio e più un racconto sul “costo della lealtà—cosa si sacrifica e cosa si trattiene in un mondo costruito sui segreti.”