
All’inizio del 1944, mentre l’esercito tedesco si ritirava di fronte all’avanzata sovietica, in Bielorussia ebbe luogo uno degli episodi più atroci e dimenticati della Seconda Guerra Mondiale.
Nei pressi della città di Ozarichi, i nazisti organizzarono campi che non assomigliavano ai lager come Auschwitz, ma a qualcosa di ancora più perverso: vere e proprie trappole umane. Migliaia di persone vennero ammassate all’aperto, in mezzo al fango, al gelo e alla neve, senza baracche né viveri, destinate a morire lentamente.
Le vittime erano perlopiù anziani, donne malate e bambini, persone incapaci di resistere o fuggire. Molti furono deportati interi da villaggi vicini. In un atto di cinismo calcolato, i tedeschi condussero nei campi anche malati di tifo, sperando che l’epidemia si propagasse fra i prigionieri e, in seguito, contagiasse i soldati sovietici incaricati di liberarli.
In appena due settimane morirono circa 17.000 persone, stroncate dalla fame, dal freddo e dalle malattie. Quando, nel marzo del 1944, l’Armata Rossa raggiunse i campi, trovò superstiti così indeboliti da non riuscire quasi a stare in piedi. I soldati si trovarono di fronte a un orrore diverso da quello dei lager: un luogo creato non per sfruttare o sterminare con le camere a gas, ma per lasciare che i più fragili venissero divorati dalla disperazione e dall’abbandono.
Dopo la guerra, nel 1946, diversi responsabili furono processati e condannati come criminali di guerra. Oggi, a Ozarichi, un monumento ricorda le vittime e ammonisce contro l’oblio.
La tragedia di Ozarichi, poco citata nei libri di storia, rimane un monito: la guerra non uccide solo con le armi, ma anche con il freddo, la fame, la malattia e, soprattutto, con la disumanizzazione.