
Quando Paul Newman morì il 26 settembre 2008, Robert Redford non rilasciò comunicati ufficiali né discorsi preparati.
Non ci furono frasi da copione, solo un dolore nudo, immediato, che trapelò dalle sue parole:
“C’è un punto in cui i sentimenti vanno oltre le parole.
Ho perso un vero amico.
La mia vita, e questo Paese, sono migliori grazie a lui.”
Un’amicizia cominciata nel 1969, sul set di Butch Cassidy and the Sundance Kid, e che avrebbe segnato entrambi per sempre.
Quando il regista George Roy Hill esitò a ingaggiare Redford, fu Newman a imporsi:
“Se non lo fa Bob, non lo faccio nemmeno io.”
Un atto di fiducia che diventò la base di un legame profondo, fatto di rispetto, sostegno e di un’ironia complice che contagiava tutti.
Sul set di La stangata (1973) si sfidavano in scherzi, gare di biciclette e piccoli dispetti. “Sembravano fratelli”, ricordò un tecnico.
E forse lo erano davvero, fratelli scelti.
Fu Newman, anni dopo, a tendere di nuovo la mano: quando Redford faticava a finanziare il nascente Sundance Institute, Paul donò fondi in silenzio, senza pretendere riconoscimenti.
“Non disse mai ‘Buona fortuna’. Chiese soltanto: ‘Dove posso aiutare?’”, raccontò Redford.
Anche nei momenti più intimi, Newman rimase fedele a sé stesso.
Poco prima di morire, chiamò Redford:
“È meglio che tu venga subito.”
Si incontrarono in Connecticut. Restarono insieme ore, senza retorica né rimpianti, parlando di progetti mai realizzati e battute mai dette.
Poi Newman sorrise e disse:
“Ci siamo divertiti, vero?”
Era il suo addio.
Dopo il funerale, Redford tacque a lungo.
Quando finalmente parlò, disse soltanto:
“Quando hai un amico da quarant’anni, non lo sostituisci. Lo custodisci.
E ringrazi Dio che sia successo.”
Non ci fu bisogno di un terzo film insieme.
La loro vera opera era quell’amicizia indistruttibile, fatta di risate, fiducia e silenzi condivisi.
Un film che nessuno ha mai girato, ma che entrambi hanno vissuto fino all’ultimo respiro.