
Nel 1992, durante i provini per Schindler’s List, Ralph Fiennes entrò nella stanza senza fare rumore.
Era un attore britannico ancora poco conosciuto, educato, dalla voce pacata e dallo sguardo gentile.
Non sembrava affatto l’uomo adatto a interpretare un mostro.
Ma bastarono pochi minuti.
Appena iniziò a recitare la parte di Amon Göth, il comandante del campo di Plaszów, la stanza cambiò.
Il suo respiro si fece più lento, lo sguardo si svuotò. Non urlava, non gesticolava.
Eppure da lui emanava una calma terribile, una violenza silenziosa.
Steven Spielberg, che assisteva al provino, rimase immobile.
Non applaudì. Uscì dalla sala in silenzio.
Rientrò dopo qualche minuto, pallido, e disse soltanto:
“Credo di aver appena incontrato il male.”
Fiennes non voleva accettare quel ruolo.
Anni dopo confessò:
“Avevo paura di lui. Non volevo entrare nella sua mente. Era un uomo vuoto, e vivere in quel vuoto ti corrode.”
Per prepararsi, guardò ore di documentari, lesse biografie e rapporti originali sui processi di Norimberga.
Non voleva creare una caricatura, ma mostrare il lato più inquietante: la banalità del male, come scriveva Hannah Arendt.
Voleva che Göth apparisse umano, quotidiano, capace di gesti banali tra un crimine e l’altro — e proprio per questo ancora più terribile.
Spielberg, colpito da quella dedizione, chiese che il reparto costumi riproducesse con precisione millimetrica la divisa di Göth.
Quando Mila Pfefferberg, una delle vere sopravvissute, vide Fiennes vestito da ufficiale per la prima volta, impallidì e scoppiò a piangere.
La somiglianza era inquietante. Per molti, rivederlo in uniforme significava tornare indietro di cinquant’anni, in un incubo che non si era mai davvero chiuso.
Da quel giorno, sul set, Fiennes si fece sempre più silenzioso.
Camminava piano, parlava poco. Restava solo tra una scena e l’altra, come se volesse tenere quella oscurità lontana dagli altri.
Anche la troupe lo percepiva: ogni volta che indossava quella divisa, l’atmosfera cambiava. L’aria sembrava farsi più fredda, più tesa.
Per il ruolo, dovette anche ingrassare di quasi tredici chili, bevendo birra ogni sera per dare al suo corpo la pesantezza fisica del personaggio.
Voleva che Göth sembrasse reale: un uomo solido, comune, con un volto qualsiasi.
Non un mostro di fantasia, ma la prova che il male può indossare un volto ordinario.
Durante le riprese, la tensione era costante.
Molti membri della troupe — soprattutto chi aveva origini ebraiche — faticavano a trovarsi davanti a lui.
Ogni gesto, ogni sguardo, evocava qualcosa che andava oltre la recitazione.
Alcuni dicevano che, quando Fiennes entrava in scena, persino gli uccelli sembravano smettere di cantare.
Quando Schindler’s List uscì nel 1993, la sua interpretazione lasciò il pubblico attonito.
Fu elogiato come uno dei ritratti più realistici e inquietanti mai apparsi sullo schermo.
Ottenne la candidatura all’Oscar e vinse il BAFTA, ma ciò che rimase nella memoria collettiva non fu il premio — fu la sensazione di aver visto da vicino il volto del male.
Non quello che urla, ma quello che tace.
Non quello che impazzisce, ma quello che obbedisce.
Un volto che Ralph Fiennes rese umano, troppo umano — e per questo indimenticabile.