
Thomas Nagel scrisse, in un articolo del 1974 ormai diventato un classico, che “sapere com’è essere un pipistrello” rappresenta una sfida insormontabile per la scienza attuale. Per un lettore attento, quella frase non è un gioco di parole ma l’apertura di una crepa nel muro del riduzionismo. Nagel non discute di ecolocalizzazione o anatomia, ma dell’esperienza soggettiva, ciò che i filosofi chiamano “qualia”. È il “che cosa si prova” a essere vivo, e non il semplice “come funziona” un organismo.
Nagel, cresciuto nella New York intellettuale degli anni Sessanta, capì presto che la spiegazione fisica del cervello non poteva catturare l’essenza dell’esperienza. La sua analogia con il pipistrello è stata scelta con cura. Un animale lontano culturalmente, percettivamente e biologicamente, che mette a nudo il salto tra descrizione oggettiva e vissuto interiore. Ogni uomo può leggere centinaia di articoli sulle onde ultrasoniche, ma nessuno potrà mai trasformare questo sapere nella sensazione stessa di orientarsi nel buio tramite un “clic” uditivo.
Vent’anni dopo, David Chalmers portò questo ragionamento su un piano più sistematico. Nel 1995, durante un convegno in Arizona, definì “hard problem of consciousness” (Problema difficile della coscienza) il compito di spiegare come da processi fisici emergano esperienze soggettive. Per Chalmers non basta descrivere circuiti neurali o flussi di informazioni. La coscienza non è solo un sistema di accesso ai dati, è un campo vivido, colorato dai sentimenti, dal dolore, dal piacere, dalle sfumature ineffabili. La scienza attuale, pur potendo mappare attivazioni cerebrali con precisione millimetrica, non spiega il “perché” queste attivazioni generano un certo sapore, un certo timbro emotivo.
ISPIRANDOSI A SPINOZA
Il dibattito esplose. Alcuni neuroscienziati, come Francis Crick — premio Nobel per la scoperta della struttura del DNA — replicarono che il problema era “difficile” solo per ora, e che il progresso delle neuroscienze l’avrebbe dissolto. Chalmers rimase fermo nella sua posizione: si possono descrivere tutti i meccanismi di una fotocamera, ma questo non racconta cosa significa guardare un cielo al tramonto.
Lo “hard problem” è dunque il cuore di ogni teoria panpsichista contemporanea. Se la coscienza sembra resistere alle spiegazioni puramente fisicaliste, è possibile che essa sia un aspetto fondamentale della realtà, come lo spazio o il tempo. Alcuni filosofi, ispirandosi a Spinoza, hanno proposto che mente e materia siano due prospettive della stessa sostanza. L’idea suona speculativa, ma ha radici profonde nella storia del pensiero occidentale e orientale.
In un’aula universitaria di Sydney, Chalmers sintetizzò la sua posizione davanti a un gruppo eterogeneo di studenti: “Se la coscienza è davvero un dato primitivo dell’universo, i nostri strumenti per studiarla devono includere non solo la misurazione, ma anche la riflessione sul soggetto che osserva.” Alcuni uscirono dalla lezione con la sensazione di avere varcato la soglia di un territorio sconosciuto.
Il problema difficile della coscienza non è una questione tecnica. È un invito a interrogarsi sul rapporto fra realtà e esperienza, su cosa significhi “essere” piuttosto che “funzionare”. E forse questa domanda, più che la risposta, è ciò che mantiene viva la filosofia accanto alla scienza.