
Adorno scopre l’America e ne ha orrore [Appunti in favore dell’estetica di massa]
Quando Adorno arriva in America (che lui chiamava con poca Einfühlung/simpatia “Statistici Uniti”) fa l’incontro con la società di massa e ne ha orrore. Per forza: scoprì che la musica non era santuarizzata come a Bayreuth, ma entrava in tutte le case con la radio e di lì a poco sarebbe circolata come sottofondo nei supermercati. Orrore! E noi qualche decennio dopo fummo sorpresi dalla “Settima” di Beethoven in sottofondo di una réclame televisiva di carta igienica e vedemmo le “Quattro stagioni” di Vivaldi ridotte a musichetta d’attesa dei centri di prenotazione telefonici.
Oltraggi permanenti della modernità. Ineludibili.
Con l’irruzione della Modernità l’arte aveva perso ciò che Walter Benjamin chiamava “aura”, ed essa non era più un godimento aristocratico-umanistico individuale o di happy few signorili e fini connaisseur, ma veniva “abbassata” a livello delle masse. Ancora orrore per la diffusione dei mass media di riproduzione (ma sfumato da parte di Benjamin per quel che riguardava la fotografia e il cinema, ma senza sapersi decidere su che valore dare alla rottura dell’aura).
Per chi si definiva marxista (come Benjamin) e voleva fondare un’estetica popolare (come da suo esplicito proposito) facendo perno proprio sui principi del materialismo storico, la perdita dell’aura e la riproducibilità tecnica dovevano essere accolte con giubilo invece, perché spezzavano finalmente la crosta aristocratica e a godere dell’arte finalmente veniva chiamato anche il popolo. Dovevano essere piuttosto i Des Esseintes di Huysmans e i Barbey d’Aurevilly o i Mallarmé (che perciò si chiuse in un linguaggio cifrato, orfico) a lamentarsene, non gli intellettuali di simpatie popolari come Zola. Il quale infatti, a differenza dei francofortesi ritiratisi nell’Aventino, ci diede dentro con i romanzi popolari e assecondò le masse con le tre Esse di prammatica, trattate però con intelligenza sopraffina: Sesso, Sangue e Soldi, dimostrando per fatti concludenti (come dimostreranno in seguito con altri mezzi gli artisti popolari o pop John Ford o Andy Warhol) che solo nell’autenticità della coscienza artistica è possibile una negoziazione tra le istanze bassomimetiche popolari -— mutevoli e ingorde per statuto—e l’ispirazione del soggetto, e che, l’aura deve essere infranta eccome, fatta a pezzi, proprio attraverso la riproducibilità tecnica a beneficio di un godimento di larga scala.
E invece no, musi lunghi e bronci della Scuola di Francoforte contro quella che da lì a poco verrà chiamata “industria culturale”, ossia l’astio aristocratico-umanistico di un gruppo di intellettuali che odiava nel profondo l’industria in sé, e che Marx, basta leggerlo con attenzione — non del loro stesso avviso in tema—, avrebbe definito “anticapitalisti romantici” (tratto antindustriale dei francofortesi che Colletti rimarcò con acume in “Tra marxismo e no”).
Ma anche grande contraddizione, dalla quale molte menti raffinate che li seguirono non sono più uscite. Popolari solo nelle intenzioni.
Si dice, ma Adorno deplorava l’ascolto sciatto e disinformato. L’ascolto sciatto e disinformato può avvenire anche a Bayreuth, mentre quello compunto e severo alla radio. I francofortesi ce l’avevano col mezzo, non si davano pace che si potesse friggere il pesce e ascoltare Malher alla radio. Loro peroravano la stasi dell’anima e l’ascolto “alla tedesca” che trasformava il piacere in un dovere. Ma ancor prima il viaggiatore inglese Burney e sulla sua scia Vernon Lee (al secolo Violet Paget) avevano scoperto l’ascolto “all’italiana” notato anche da Stendhal alla Scala. Ossia l’ascolto mentre si vive e si fa altro, anche mangiando “pezzi duri” (gelato) e in cui la musica viene a te, ti inonda e tu non vai alla musica, perché ce l’hai dentro, come un sentimento. Che poi è la vera splendida, inebriante esperienza della modernità, quella libera, disincantata e non per questo meno emotiva e partecipata di noi tutti quando, la notte su un’automobile in autostrada, la radio o la nostra play list diffonde il “Miserere” dell’Allegri come un Sergio Endrigo d’annata. Solo la modernità e la riproducibilità tecnica possono trasformare un filisteo in un Lord Byron dalle sensazioni estetiche centuplicate e personalizzate (seppur all’interno di una massificazione consapevole, che a questo punto si accetta come un delizioso destino).
Ciò che piace in romanzieri americani come il Wallace di “Infinite jest” è l’immersione in un universo estetico massificato da cui prendere mille volte le distanze ma con cui consapevolmente dialogare visto che si possono esperire forti vibrazioni estetiche anche nella cultura di massa, perché sarebbe per il pesce lamentarsi dell’acqua in cui nuota. Poi parleremo dell’omologazione culturale contro cui inveiva Pasolini (manovrando però un mass medium come il cinema), o del fenomeno dell’egemonia sottoculturale segnalato da Panerari o infine dell’astio “adelphiano” manifestato da Roberto Calasso contro l’”innominabile attuale”, perché è altrettanto vero che l’alternativa è o la Torre d’avorio o un accordo negoziato con la cultura di massa.
Ps. Ma quanto sono invecchiati i “Minima moralia” già santificati da Battiato in “Bandiera bianca”?