
Questa storia inizia nel luglio del 1977, in un enorme stadio a Montréal, durante l’ultima data del tour di Animals dei Pink Floyd. Roger Waters era stanco, la fama lo aveva reso sempre più irascibile e disilluso, sentiva un abisso crescere tra lui e le migliaia di persone urlanti sotto il palco.
Durante quel concerto, la frustrazione raggiunse il culmine: un fan particolarmente insistente cercò di arrampicarsi sul palco, e Waters, in un gesto impulsivo e che anni dopo definì “terribile”, gli sputò addosso.
Quell’episodio fu un risveglio traumatico, uno specchio puntato sulla sua crescente alienazione. Si rese conto di aver innalzato, concerto dopo concerto, un muro invisibile tra sé stesso, rockstar miliardaria, e il pubblico che era venuto a vederlo. Subito dopo, si chiuse in albergo, completamente solo, e l’idea prese forma: la metafora del Muro. Non era più solo la sua rabbia verso il pubblico chiassoso che a volte copriva la musica, ma un muro fatto di mattoni che rappresentavano ogni trauma, ogni perdita, ogni ingiustizia subita da un uomo: la morte del padre in guerra, la madre iperprotettiva, l’oppressione degli insegnanti, il fallimento dei rapporti sentimentali, e infine, l’isolamento della celebrità.
Waters decise che questa storia di auto-reclusione, di una rockstar fittizia chiamata Pink che si isola dal mondo per poi abbattere il suo stesso muro, doveva diventare un’opera rock colossale. La musica e la teatralità si fusero: lo scopo del tour sarebbe stato quello di costruire fisicamente un muro di cartone, mattone dopo mattone, sul palco, per poi farlo crollare in un atto di catartico liberazione. Era un modo per affrontare e condividere la sua crisi, trasformando il suo gesto più vergognoso in un’opera d’arte che avrebbe ridefinito l’incomunicabilità tra l’individuo e la società. Così, da un momento di profonda solitudine e repulsione, nacque l’idea di The Wall.