
Io lo odio *Horses*.
Lo odio perché non è solo un disco: è un grido.
Lo odio perché Patti Smith non canta, Patti Smith evoca, vomita, prega e impreca nella stessa frase.
Lo odio perché *Gloria* inizia con “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” e già capisci che da lì in poi non ci sarà più pace.
Lo odio perché ogni parola è un coltello poetico, affilato con Rimbaud e sporcato di rock’n’roll.
Lo odio perché *Birdland* sembra scritta da una medium in trance, e tu resti lì, intrappolato, ipnotizzato.
Lo odio perché *Free Money* è la disperazione che balla, e *Kimberly* è una ninna nanna per sopravvivere a sé stessi.
Lo odio perché in ogni traccia senti l’odore del CBGB, della New York dei poeti e dei diseredati, della gente che non voleva diventare star ma voce.
Lo odio perché Lenny Kaye alla chitarra non accompagna: dialoga, urla, si sporca di anima.
Lo odio perché *Elegie*, l’ultima, è un addio a Hendrix, ma anche un addio all’innocenza.
Lo odio perché ogni volta che lo metti su, senti che stai ascoltando l’inizio di qualcosa di troppo grande per essere solo “musica”.
Lo odio perché *Horses* non è femminile o maschile, non è punk o poesia: è un terremoto spirituale.
E io lo odio doverlo dire, ma *Horses* è il battesimo del rock come arte sacra.
È Patti Smith che apre le porte del paradiso a calci, e ci fa entrare tutti dentro, sanguinanti e liberi.