
“Woke” non è davvero traducibile in italiano – vuol dire qualcosa come “consapevole” – ma indica, o almeno indicava originariamente, l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia, e non ne rimane indifferente, solidarizzando ed eventualmente impegnandosi per aiutare chi le subisce.
Nel Novecento l’espressione “woke” esisteva già ed era usata soprattutto tra gli afroamericani, sia con l’accezione di “stare all’erta” rispetto a un pericolo, sia con quella più generica di essere a conoscenza di qualcosa.
La sua diffusione col significato attuale però risale allo scorso decennio, quando fu usata nell’ambito delle proteste di Black Lives Matter per esprimere il concetto a cui è stata poi associata negli ultimi anni: cioè la consapevolezza su una serie di questioni e problemi legati al razzismo e al sessismo sistemico – nel senso di radicati nelle istituzioni e nelle dinamiche sociali – della società americana (e per estensione di quelle occidentali).
Un termine quindi con un’accezione positiva, per chi lo usava riferendosi a un obiettivo e un’ambizione: si definivano woke per esempio le persone – perlopiù della cosiddetta generazione dei “millennial”, cioè i nati tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – che facevano attivismo in piazza e sui social network, che partecipavano alle proteste antirazziste o alle marce per i diritti delle donne, che sensibilizzavano sull’importanza di utilizzare un linguaggio rispettoso e inclusivo per riferirsi alle minoranze.
Nell’ampio dibattito che ha interessato i paesi anglosassoni negli ultimi anni sulle rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità, sono emerse diverse nuove parole che hanno poi cominciato ad affiorare nelle discussioni anche in Italia, prima nelle nicchie e poi in modo sempre più trasversale. Giovedì per esempio Repubblica ha pubblicato in prima pagina un editoriale del giornalista statunitense Bret Stephens, che era uscito pochi giorni prima sul New York Times, dal titolo “Perché l’ideologia woke fallirà”.
L’articolo dà per inteso il significato di woke, una parola che in realtà non si è mai davvero affermata nel dibattito italiano, nel quale solitamente si fa ricorso ad altre espressioni che rientrano più meno nello stesso campo semantico, come “politicamente corretto” oppure “cancel culture”. Peraltro, negli stessi Stati Uniti l’aggettivo woke e il sostantivo wokeness sono parole sempre meno usate, se non con una chiara connotazione dispregiativa: a complicare ulteriormente la spiegazione non solo del suo significato, ma anche degli sviluppi nelle sue accezioni e usi.