
C’è una domanda che non facciamo mai davvero, perché fa paura:
Che cosa accade a una società quando comincia a considerare la morte una soluzione?
Oggi EUTANASIA e SUICIDIO ASSISTITO vengono presentati come l’ultima tappa del progresso: la libertà di scegliere, la modernità che finalmente si emancipa dal dolore.
Una narrazione elegante, rassicurante, quasi inevitabile.
Ma c’è un’altra realtà, molto meno fotogenica:
una società che non sa più accompagnare chi soffre finisce per proporre scorciatoie mascherate da libertà.
E allora proviamo a guardare la cosa da un altro lato, quello scomodo.
Perché le richieste di eutanasia aumentano proprio dove diminuiscono le cure?
Perché crescono nei Paesi che hanno tagliato assistenza, palliative, sostegno psicologico, rete familiare, presenza umana?
Forse la domanda non è:
“Vuoi morire?”
ma:
“Perché ti senti così solo da pensare che la morte sia l’unico modo per smettere di soffrire?”
Io questa cosa la sto vedendo con i miei occhi.
Stiamo accompagnando mia mamma in questo ultimo, fragile tratto della sua vita.
Un cammino faticoso, stremante a volte, pieno di notti difficili e giorni che sembrano troppo lunghi.
Ma è anche un tempo carico di significato:
un tempo in cui si impara la misura vera dell’amore, della presenza, della responsabilità reciproca.
E mentre lo viviamo ci rendiamo conto di una verità che nessuna legge potrà mai cambiare:
quando una persona è accompagnata, ascoltata, curata, sollevata…
la morte non appare più come una liberazione, ma come un evento naturale da attraversare insieme.
Il problema non è la scelta individuale.
È il contesto.
Una società che lascia soli i fragili crea condizioni in cui la libertà diventa una parola vuota.
Perché è facile dire “scegli” quando non hai nessuno che ti tiene la mano.
È facile parlare di “dignità” quando non ci si chiede chi dovrebbe garantirla.
È facile difendere l’autonomia quando lo Stato abdica al suo compito più umano: non lasciarti indietro.
Io non giudico chi pensa che l’eutanasia sia un gesto di pietà.
Lo capisco.
Ma chiedo una cosa:
siamo sicuri che la richiesta di morire sia davvero una scelta libera… o è il grido di chi non trova più nessuno accanto?
Perché — e lo dico con la fatica e la gratitudine di chi ci sta passando dentro —
accompagnare una persona nel suo ultimo tratto è difficile, sì, ma è anche ciò che ci tiene umani.
E allora la vera domanda diventa:
vogliamo una società che sostiene chi è fragile, o una società che gli offre una scorciatoia per non vederlo più?
La risposta non riguarda solo i malati.
Riguarda noi.
Riguarda che cosa vogliamo essere.
Perché una civiltà non si riconosce dai suoi trionfi, ma da come tratta chi non può più camminare da solo.