
Full Metal Jacket è una discesa lenta e inesorabile nel cuore vuoto della guerra.
La prima metà non mostra la nascita di soldati, ma la cancellazione di tutto ciò che li rendeva persone. L’addestramento non rafforza: leviga, consuma, riduce. Leonard (PalladiLard0) diventa la prova vivente che quando spingi un essere umano oltre il punto di ritorno non ottieni disciplina: ottieni un silenzio che fa più paura di qualsiasi esplosione. È la prima grande accusa del film: la guerra comincia molto prima del fronte.
“Joker: Quelle sono cartucce cariche?”
“Soldato PalladiLard0: 7.62 blindatissime. Full metal jacket!” ![]()
Poi arriva il Vietnam, e Kubrick mostra la verità che molti preferiscono ignorare. Non c’è direzione, non c’è logica, non c’è trionfo: solo giovani che si muovono in un ambiente che risponde con eco vuote. I marines avanzano tra edifici sventrati come attori che recitano una parte che non hanno scelto. Joker cammina con una frase sul casco e un sorriso cucito sulla faccia, ma ogni passo tradisce un dubbio: che tutto questo non abbia alcun senso.
La sua ironia non è leggerezza, è un’armatura sottile che scricchiola a ogni colpo. E qui la critica alla guerra è totale: non viene mostrata come necessaria, né gloriosa. È un meccanismo che macina vite, che inganna promettendo onore e restituisce solo vuoti da colmare. Kubrick smonta ogni mito mentre procede, scena dopo scena, senza mai alzare la voce: gli basta mostrare il volto dei ragazzi mentre capiscono di essere diventati parte di qualcosa che non li rappresenta. Alla fine, quando tutto tace, rimane una malinconia che ti accompagna a lungo. E ogni volta che lo rivedo ritorna la stessa domanda: è davvero solo un film? è uno specchio che riflette ciò che la guerra fa agli esseri umani.
Forse è per questo che penso sempre che possa essere il mio preferito quando lo riguardo. Kubrick ti costringe a riflettere.
Kubrick ti amo.