
Baldovino IV è passato alla storia con un soprannome che non lascia indifferenti: il Re Lebbroso. Una definizione che sembra fatta per una ballata medievale o per un poema cavalleresco declamato davanti a un fuoco crepitante, in una sala con pareti di pietra e arazzi color porpora.
Eppure Baldovino non fu un personaggio leggendario: fu un ragazzo in carne e ossa che, nel bel mezzo del XII secolo, riuscì a governare il Regno di Gerusalemme con una lucidità che molti adulti suoi contemporanei avrebbero potuto solo invidiare. Lo fece mentre combatteva la più temuta e stigmatizzata delle malattie del tempo, e mentre fronteggiava il più formidabile avversario politico e militare della sua epoca, Ṣalāḥ ad-Dīn, che l’Occidente chiama Saladino. È difficile immaginare una vita che sembri più “scritta” di così, e forse è proprio questa apparente predestinazione a renderlo così affascinante agli occhi moderni.
Baldovino nacque nel 1161 dal re Amalrico I e Agnese di Courtenay. Da bambino, durante i giochi con i coetanei e con il suo precettore Guglielmo di Tiro, si iniziò a notare una stranezza: il fanciullo non sentiva dolore. Non provava male quando gli altri gli torcevano il braccio per scherzo, né quando si graffiava. Era una cosa talmente particolare da sembrare un dono divino, almeno finché Guglielmo comprese che di divino c’era ben poco. La perdita di sensibilità era il segno inequivocabile della malattia più temuta dell’epoca: la lebbra.
A questo punto della storia, in una biografia tradizionale, l’autore preparerebbe il lettore al dramma: la decadenza fisica, l’isolamento, la paura. Ma con Baldovino questo cliché non funziona. Non perché la lebbra fosse meno devastante per lui che per gli altri, ma perché la sua vita dimostrò una cosa sorprendente: che si può diventare un sovrano efficace, rispettato e persino temuto anche quando si è considerati, in un angolo della società medievale, quasi socialmente morti. Il fatto straordinario non è che fosse malato: è che non si fermò.
Quando nel 1174 suo padre Amalrico morì, Baldovino aveva appena tredici anni. L’età in cui oggi si sostiene l’esame di terza media. Ma nel XII secolo, e soprattutto a Gerusalemme, un tredicenne poteva essere catapultato sul trono senza tanti preamboli. Certo serviva un tutore, e infatti per qualche tempo fu governato da reggenti, ma Baldovino non si limitò a fare da simbolo dinastico. Fin da giovane mostrò una sorprendente capacità di intendere la politica, di riconoscere gli equilibri instabili e di prevedere conseguenze dove i suoi consiglieri vedevano solo opportunità o pericoli immediati. La sua malattia lo condannava, lentamente ma inesorabilmente, alla perdita della vista, alla compromissione delle mani e alla difficoltà di muoversi. Eppure, riuscì a essere un re attivo, talvolta energico, spesso perspicace, con una chiarezza mentale che colpisce ancora oggi.
I cronisti lo descrivono come un ragazzo di rara dignità, capace di dominare la propria condizione fisica per difendere un ruolo che, agli occhi del Medioevo, era più sacrale che politico. Nel mondo cristiano del tempo, un re era unto e consacrato: governava per mandato divino. L’idea che Dio potesse scegliere un sovrano malato di una malattia considerata spesso un castigo o una contaminazione era un cortocircuito teologico che nessuno avrebbe saputo spiegare facilmente. Eppure Baldovino rimase re, e nessuno ebbe davvero la forza (o l’audacia) di rovesciarlo. Non perché non ci fossero intrighi, tentativi, complotti: ne fu circondato per tutta la vita. Ma perché la sua figura, nonostante tutto, era più forte delle macchinazioni che lo avvolgevano.
Uno dei momenti più celebri della sua vita si svolse nel 1177, durante la battaglia di Montgisard. Baldovino aveva sedici anni, età da primi turbamenti adolescenziali, non da strategie militari. Aveva già la lebbra in forma avanzata, e ciononostante montò a cavallo per dirigere l’esercito cristiano contro le forze di Saladino, che si trovavano in netta superiorità numerica. L’immagine che ci lascia la storia è quasi pittorica: Baldovino, fragile, forse febbricitante, sorretto in sella da due cavalieri, che stringe a sé una reliquia della Vera Croce mentre guida i suoi soldati in battaglia. Il simbolismo è talmente potente che sembra inventato… e invece no! La battaglia fu vinta, e in modo clamoroso. Saladino stesso riuscì a salvarsi a fatica, ritirandosi nel caos dello scontro. Per alcuni anni, quella sconfitta frenò l’avanzata musulmana e consolidò la fama del giovane re come una sorta di miracolo vivente.
La vittoria di Montgisard contribuì in modo decisivo a costruire la leggenda di Baldovino IV, ma non bastò a consolidare un regno che, politicamente, rimaneva un puzzle in equilibrio precario. I nobili crociati, spesso più attenti ai propri interessi che alla sopravvivenza dello Stato, si scontravano per le alleanze matrimoniali, per la gestione dei castelli, per il controllo dei territori più redditizi. E proprio i matrimoni, nel Medioevo, erano la leva politica per eccellenza. Baldovino, consapevole di non poter generare eredi, cercò di organizzare il futuro del regno attraverso la figura della sorella Sibilla, la cui vita sentimentale fu un turbine di scelte discutibili e conseguenze disastrose. La politica matrimoniale dei regni crociati era una danza quasi coreografata, eppure ogni tanto arrivava qualcuno che metteva il piede fuori tempo. In questo caso, quel “qualcuno” fu Guglielmo Longaspada, primo marito di Sibilla, morto giovane; e soprattutto Guido di Lusignano, secondo marito, uomo poco amato dall’aristocrazia e malvisto da Baldovino stesso.
Guido, che Baldovino considerava inaffidabile e arrogante, era però nella posizione perfetta per diventare re consorte. Il sovrano lebbroso cercò di evitarlo in tutti i modi, arrivando perfino, nel 1183, a incoronare co-re un altro nipote, il piccolo Baldovino V, un bambino di cinque anni. Sembrava una mossa astuta per garantire stabilità futura, ma il tempo non giocava a suo favore. La sua salute stava precipitando, e ogni passo era una sfida. Fu costretto a ritirarsi sempre più spesso dalle funzioni di governo, e allo stesso tempo doveva fare i conti con un regno ormai sull’orlo della guerra contro Saladino, che nel frattempo aveva consolidato il suo potere sull’Egitto e sulla Siria, costruendo un apparato politico-militare di una solidità invidiabile.
È interessante notare come molti storici moderni considerino Baldovino IV tutt’altro che un re “debole”: la sua malattia lo rendeva fisicamente vulnerabile, ma le sue decisioni politiche erano spesso più prudenti e razionali di quelle di molti sovrani perfettamente sani. Era consapevole dei limiti del proprio esercito, della fragilità dell’alleanza con i vicini musulmani moderati e del fatto che il suo regno non avrebbe mai potuto sopravvivere a una guerra totale con Saladino senza il supporto dell’Europa occidentale, supporto che, spoiler, non arrivò mai nella misura sperata. La grande tragedia del regno latino, in fondo, è tutta qui: un territorio fragile, circondato da potenze ostili, che cerca disperatamente di sopravvivere mentre in Occidente papi, re e nobili sono impegnati in altre faccende, dispute, guerre dinastiche e litigi ecclesiastici.
Negli ultimi anni della sua vita, Baldovino fu costretto ad assistere, impotente, a parte del disfacimento politico del regno. Era quasi cieco, spesso troppo debole per partecipare alle riunioni del consiglio e costretto a farsi trasportare su una lettiga quando doveva mostrarsi in pubblico. Ma non smise mai di tentare di governare. Con un atto finale di notevole abilità politica, nel 1184 revocò il potere effettivo a Guido di Lusignano, che aveva dimostrato tutta la sua incapacità nel gestire perfino le dispute interne alla nobiltà. Baldovino sperava così di salvare il salvabile, affidando il comando militare e l’autorità politica a figure più solide. Ma ormai la sua salute era quasi del tutto compromessa, e il tempo a sua disposizione si stava esaurendo.
Morì nel 1185, a ventiquattro anni. La sua morte non fu improvvisa: fu un lento declino, testimoniato da cronisti che ne descrivono la sofferenza fisica ma anche la sorprendente lucidità mentale, rimasta intatta fino all’ultimo. Fu sepolto nella basilica del Santo Sepolcro, il cuore spirituale del regno e simbolo della sua missione di sovrano cristiano. Ironia della storia, il regno non sopravvisse a lungo dopo di lui: appena due anni dopo, con Guido finalmente sul trono, le rivalità interne e la cattiva gestione politica portarono alla catastrofe di Ḥaṭṭīn, la grande sconfitta del 1187 che aprì a Saladino le porte di Gerusalemme. Molti storici si sono chiesti cosa sarebbe accaduto se Baldovino fosse vissuto qualche anno di più. Probabilmente il collasso sarebbe stato solo rimandato, ma è plausibile che sotto la sua guida la città santa avrebbe resistito più a lungo, forse abbastanza da attirare rinforzi europei in tempo. Sono speculazioni, certo, ma non prive di fondamento.