
Barbie: o del fondare la propria causa sul nulla.
So che per molti è un’impresa ardua, ma per analizzare il film di Barbie è necessario operare una separazione tra piano estetico e piano teorico-filosofico.
Dal punto di vista stilistico-estetico, il film è potente, innovativo e soprattutto il cast – e l’attrice protagonista in particolare – introducono una tecnica di recitazione a livelli di eccellenza. Se Barbie ha avuto un enorme successo, dunque, è probabile che uno dei motivi sia collegato a quello della crisi cronica dei cinecomic supereroistici, ovvero la standardizzazione estetica. In altre parole, anche da parte dei film commerciali, oggi, il pubblico pretende fantasia e inventiva, dal che conseguono tanto i recenti flop Marvel/DC quanto, in maniera opposta e speculare, il successo di Barbie.
Sul piano teorico-filosofico, il film certamente fa parte del cosiddetto Pensiero Unico, ma ciò non si declina in termini di becera propaganda. Il tema della fluidità è a malapena accennato grazie alla presenza di personaggi minori di contorno e anche la critica al patriarcato, tutto sommato, non pesa più di tanto perché viene svolta con una robusta dose di auto-ironia.
Quello per cui il film risulta inquietante non consta dunque di quel catechismo woke che ormai vediamo impazzare ovunque, bensì della medesima ideologia formulata però in forma etico-filosofica e perciò stesso ben più insidiosa e profonda.
Il tema centrale dell’opera è, in buona sintesi, l’allontanamento definitivo dell’uomo dalla donna nonché dell’essere umano dall’amore.
Barbie – in un percorso iniziatico di formazione da giocattolo a essere umano che ricorda neanche troppo vagamente quello di Pinocchio – comprende che la prospettiva esistenziale della donna è l’autorealizzazione professionale, al limite anche l’essere madre, ma certamente non vi è in lei alcuna necessità dell’uomo e tantomeno della relazione di coppia.
L’evoluzione che i personaggi conseguono, quindi, vede l’uomo che necessita di de-virilizzarsi e rinnegare sé stesso: in pratica, l’essere-maschio deve venire a coincidere con un divenire-nulla.
Nel caso della donna, le caratteristiche della femminilità sono invece ammesse, purché de-erotizzate e del tutto avulse da qualsivoglia concatenamento erotico-sentimentale.
Il messaggio transumanistico del film – per quanto alla fine a Barbie spunti quella vagina che la bambola notoriamente non possiede – sentenzia la necessità di emanciparsi dalla propria biologia riproduttiva perché, così facendo, agli esseri umani si aprirebbe un orizzonte ricco di possibilità di autorealizzazione.
Un insieme di possibilità così ampio da essere indefinito e facente sì che l’individuo – separato ormai non solo dalla comunità di popolo ma anche dalla diade sessuale – fondi, per dirla con Max Stirner, la propria causa sul Nulla