
La felicità non si lascia trasportare, è lei che porta noi. È lei che comanda il nostro agire, quando ci tocca.
È per questo che non riusciamo mai a farla durare a lungo. Non ci vogliamo abbandonare al suo tempo, al suo ritmo.
No, noi e la nostra malattia mortale, la superbia che ci fa pensare di essere al centro del mondo, vogliamo che lei si adatti al ritmo assurdo della nostra vita infelice.
Non riconosciamo la nostra debolezza, quella che dipinge di nero il sole della nostra vita, abbiamo paura di perdere il nostro potere sul mondo, lasciandoci prendere e governare da un altro al di là di noi stessi.
Ed eccoci così a sbranare con frenesia i brevi attimi della nostra felicità, consumandoli e triturandoli nell’ingranaggio frenetico che ci domina, quello del dolore, quello dell’invidia, quello della nostra vita infelice, che ci trascina in un vortice sempre più incontrollabile.
In questa specie di chiocciola assurda noi crediamo di catturare la gioia, ma la sua forza è immensamente superiore alla nostra, la forza centrifuga della sua tranquillità aumenta ad ogni giro della spirale, fino a quando è la felicità stessa a decidere che è giunto il momento di abbandonare la noia di questo girare attorno al buco nero della nostra ignoranza.
Se ne va, nel breve buio che accompagna un battito di ciglia, senza nemmeno salutarci.
Non ce lo siamo meritati neppure stavolta il suo sorriso.
“Alla prossima” si limita a sussurrare tra sé.