
L’amicizia non è un fatto, è un processo. Non nasce da un incontro fortuito, ma da una serie di gesti che si sedimentano nel tempo. È un modo di riconoscersi senza bisogno di spiegazioni, un linguaggio che si costruisce nella continuità e nella frattura. Non è possesso, è presenza: la certezza che qualcuno resta, anche quando non serve, anche quando non c’è nulla da chiedere. È la voce che dice “ci sono”, senza condizioni. È la normalità che diventa eccezione, perché non tutti sanno restare.
L’amicizia non si misura nei momenti di festa, ma nelle pieghe silenziose: nelle telefonate senza motivo, nelle parole che non giudicano, nei silenzi che non pesano. È un processo che si perpetua perché libera, perché non pretende, perché non ha bisogno di dimostrare. È fragile e forte insieme, perché si regge sulla fiducia implicita.
Eppure, l’amicizia non è invulnerabile. Può incrinarsi, può smarrirsi, può trasformarsi. Ma proprio in questo mostra la sua verità: non era destino, era scelta. E ogni volta che viene rinnovata, ogni volta che resiste, diventa evidente che non è un dono casuale, ma un atto di volontà.